Il lavoro analitico e quello con i genitori nei disturbi alimentari

Essere orientati dalla Psicoanalisi nella cura dei disturbi alimentari significa innanzitutto mettere al centro della cura il soggetto, il soggetto dell’inconscio per essere precisi, il che significa non considerare il sintomo un deficit o un disfunzionamento.

Nel caso dei disturbi alimentari, non si tratta di normalizzare il comportamento alimentare “disturbato”, bensì porre l’accento sul significato che il sintomo alimentare, nelle sue diverse declinazioni, assume come rivelatore della verità intima del soggetto.
Ciò che ci si deve domandare è dunque qual è la funzione che questo sintomo ha nell’economia soggettiva. In una cura si mira innanzitutto a rendere la persona responsabile della sua scelta e, attraverso la comprensione delle ragioni profonde del suo disagio, permettergli di optare per una soluzione meno nociva e più consona alla realizzazione del proprio desiderio.

Quando si parla di Psicoanalisi nella cura dei cosiddetti “sintomi moderni” come appunto le patologie da dipendenza quali l’anoressia e la bulimia o i disturbi alimentari in genere, non si parla di praticare la psicoanalisi classica, il lettino di Freud per intenderci, ma di applicare i principi logici e l’etica del discorso analitico. La tecnica può dunque assumere le forme più varie compreso anche un approccio multidisciplinare al problema.

La nostra clinica, il nostro modo di lavorare, non è costruito innanzitutto a partire dai nostri saperi e dalle nostre competenze, non è sulla base di un protocollo standard da applicare a una metodica ideale da seguire; non si fa nulla sulla serie delle conoscenze acquisite in base alle statistiche mediche o epidemiologiche. La nostra clinica è una clinica del particolare, uno per uno. Uno per uno ma non senza il soggetto. E non senza l’altro. Un altro che spesso è al plurale: l’équipe dei terapeuti, l’istituzione, la rete di sostegno dei familiari.

In merito alle famiglie queste sono spesso considerate una delle cause del disagio alimentare di un figlio. Il discorso è lungo e complesso, certamente non ci sono colpe da attribuire ai genitori e ci sono famiglie “quasi perfette” o comunque a cui non si può facilmente imputare una responsabilità diretta rispetto al sintomo del figlio. Il sistema familiare e le dinamiche che lo sottendono incidono, ovviamente, nella storia di una persona e, come su tutto del resto, anche nella scelta di un disturbo alimentare. Ma la responsabilità è sempre innanzitutto soggettiva.

Le famiglie, soprattutto fintanto che il ragazzo o la ragazza vivono in casa, sono però interpellate in prima istanza in questi disturbi essendo costrette ad un cambiamento spesso radicale nella propria vita e nelle abitudini familiari dei propri componenti. I genitori, quando sono presi nelle dinamiche perverse del disturbo, figurano come attori impotenti di fronte ad un sintomo dilagante e acefalo che non fa sconti anche rispetto all’impegno che spesso queste madri e questi padri mettono per riuscire ad aiutare un figlio nel suo percorso di cura.

Il lavoro che si può fare con i familiari è un lavoro che può modificare la stoffa su cui la trama del discorso soggettivo si va ad articolare. A volte non è necessario o si tratta per lo più di cercare degli effetti di contorno, altre volte invece sarebbe del tutto essenziale. Sono queste però le situazioni in cui ritroviamo una maggiore difficoltà, se non una vera e propria reticenza o diffidenza, verso un lavoro di sostegno attraverso la parola. La medicina passa, la terapia del figlio passa, ma la messa in questione personale no. Ed è un vero peccato.