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PREVENIRE È MEGLIO CHE CURARE? DCA e prevenzione

Quando si tratta di affrontare il tema della prevenzione nel campo della salute mentale, e più specificamente dei disturbi alimentari, l’argomento diventa immediatamente complesso e controverso.

La Prevenzione, nel campo della salute pubblica, è oggetto di molta attenzione, di importanti investimenti e di molteplici campagne informative e di sensibilizzazione per le varie patologie a cui possiamo essere soggetti: dalla prevenzione del tumore al seno, alla prevenzione della sclerosi multipla, dalle malattie rare alle leucemie infantili e via dicendo.

Complesso perché il campo della patologia psichiatrica e della salute mentale ha la particolarità di non potere essere considerato “neutro” quanto alla responsabilità  personale (a nessuno verrebbe in mente di arrabbiarsi con un malato di SLA, mentre non può dirsi lo stesso per una qualsiasi problematica psichica, in particolare se legata al campo delle dipendenze). Questo non favorisce l’applicazione degli stessi criteri per la prevenzione delle altre patologie mediche. Quanto ai disturbi alimentari, inoltre, non è sempre chiaro se ciò che si vuole prevenire siano un insieme di sintomi e comportamenti che caratterizzano i DA, oppure un disagio più generale e complesso che si manifesta con i sintomi alimentari e non solo.

Controverso perché nonostante numerosi studi, ricerche, teorizzazioni, non ci sono delle “linee guida” applicabili tout court e le diverse metodiche si contraddicono o sembrano non riuscire a raggiungere i risultati preposti. Se a questo associamo l’elevato costo che hanno i programmi di prevenzione auspicabili (che sappiamo per esempio devono essere non a spot ma continuativi, rivolti ad un ampio numero di persone ma strutturati in modo intensivo, ecc.), possiamo ben capire come si finisca facilmente per sposare l’idea che la spesa non valga l’impresa e, come scritto anni fa in un testo che ha fatto scuola rispetto al tema della prevenzione

“La prevenzione da sempre è un desiderio di tutti (operatori della salute e politici in primis) ma alla fine è la priorità  di nessuno, poiché le scarse risorse economiche e umane vengono maggiormente destinate alla cura, mancando dati che confermino l’attuabilità  e l’utilità  di programmi preventivi”.

(Il coraggio di guardare – Ripensare la prevenzione nei Disturbi del Comportamento Alimentare):

Potremmo fare una lunga disquisizione sul perché, a nostro avviso, i programmi di prevenzione dei disturbi alimentari, nonostante gli sforzi che sono stati fatti negli ultimi anni, siano destinati a non essere così incisivi come ci si aspetterebbe.

Come sarebbe interessante fare una disamina critica dell’uso che viene fatto dei concetti “fattori di rischio” e “fattori di protezione” rispetto ai disturbi alimentari o dei vari livelli di intervento da distinguere nella prevenzione dato che a volte troviamo teorizzazioni molto fantasiose in merito.

Ci interessa però oggi focalizzare quella che è una questione metodologica di fondo senza cui non possiamo intenderci in merito a questo spinoso tema della prevenzione nei disturbi alimentari.

La nostra posizione rispetto al tema della prevenzione è radicale: non si fa prevenzione dei disturbi alimentari mirando a “superare”  gli atteggiamenti disfunzionali e i comportamenti non salutari. 

Certamente questa è un’azione educativa effettuabile, e anche con un certo successo, ma se partiamo dall’ipotesi che agire sui comportamenti è intaccare le conseguenze e non le cause del problema, che senso ha ridurre la prevenzione dei disturbi alimentari a una sorta di “rieducazione comportamentale”?

Ci interessa pertanto creare uno spartiacque tra un concetto di prevenzione di tipo normativo, rieducativo e comportamentale e l’idea di una prevenzione che tenga conto della posizione dei soggetti coinvolti e li includa nel processo che li riguarda.

Premetto che in questo contesto vogliamo parlare della prevenzione non in senso ampio, dunque della prevenzione sugli aspetti socio culturali del problema, con interventi per esempio a livello della cultura della prestazione e della perfezione o sul bombardamento mediatico sul cibo e il corpo. Né anche sulla prevenzione generica che può essere fatta per esempio sulle dinamiche adolescenziali. Quello di cui ci interessiamo oggi è però relativo alla prevenzione strettamente legata al disturbo alimentare, dunque rivolta alle persone che sono limitrofe alla questione, se non già  all’interno.

Partiamo dunque da una considerazione universalmente riconosciuta.

Il sintomo alimentare è un sintomo “egosintonico”, questo significa che il soggetto, più che soffrirne, si sente in “sintonia” con il disturbo stesso, fa parte della sua persona, per lui non è un problema come invece lo è per gli altri; ha un ritorno dal suo sintomo, ne ha “bisogno”, è qualcosa su cui si regge e che non considera affatto un problema.

Ne consegue allora una domanda:

Come si fa a fare prevenzione là dove il soggetto da agganciare è costitutivamente contrario a qualsiasi intervento preventivo, dissuasivo o persuasivo?

Come fare prevenzione su una sintomatologia che non vede il soggetto disponibile e interessato alla stessa?

Nella clinica conosciamo molto bene questo dato. Sappiamo perfettamente che porsi di fronte a un soggetto con una sintomatologia anoressica o bulimica o binge come colui che sa, che gli indica la strada o che vuole dissuaderlo dal suo comportamento e farlo tornare nella retta via, non fa che impedire un aggancio con il soggetto e rinforzare il sintomo. Esattamente come sanno benissimo i genitori quando si trovano impotenti a trattare con un sintomo che la fa da padrona e in cui l’insistenza (sul cibo, sul peso, ecc.) provoca solo maggiore resistenza.

Questo ci mette di fronte a una scelta etica: se metterci dalla parte del soggetto coinvolto, se necessario anche contraddicendolo, ma presupponendone un’assiologia, dei valori, una logica, o metterci dalla parte di chi è contrario, che sia espressamente e consciamente contrario o che lo consideri un capriccio o che si limiti ad asserire di non capirne qualcosa poco conta.

Normalmente è più utile porsi “in negativo”, come qualcuno che non sa qual è il bene del paziente, che non vuole necessariamente farlo ingrassare per esempio o non aderisce a un ideale di benessere precostituito. Per ascoltare questi soggetti è necessario rovesciare la nostra logica e accoglierne un’altra, magari incomprensibile ma precisa.

Di conseguenza, in un certo senso, il medico lavora di contro al medico, lo psichiatra lavora di contro allo psichiatra, il nutrizionista lavora di contro alla dieta, il genitore stesso lavora di contro al suo ruolo di genitore. E tutto questo dà  i suoi frutti.

Questa strategia ha un suo parallelo comunicativo mediatico.

Cosa significa? Significa che mettere in campo un’azione di prevenzione che agisca sui soggetti, deve necessariamente collocarsi “di contro” allo stesso attore che pronuncia l’azione dissuasiva o il gesto a scopo preventivo.

Nessuno gli dice “cosa fare”.

E tutto quanto in negativo, il “Sì” è solo del soggetto.