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LAVORARE CON I SOGGETTI: deterapeuticizzare

L’orientamento di lavoro di Heta con i soggetti e il ruolo delle figure non medicali nella cura. Intervento alla prima edizione del Festival del Paesaggio organizzato dalla Cooperativa Frontiera Lavoro.

“Cominciamo dalla parola che ho letto sul programma, che ci ricorda quanto sia importante la “desanitarizzazione”, se così possiamo chiamarla, e ci suggerisce anche quanto sia difficile, per il significante terapeutico e per la medicina in toto, farsi da parte una volta che si è entrati in gioco.

Ad esempio, immaginate di avere la febbre, una banale influenza. Qualcuno vi prepara il vostro piatto preferito, magari piccante, e mentre lo mangiate vi ricorda quanto il peperoncino, in questi casi, sia salutare, contenendo molta vitamina C: “…quando si ha l’influenza è importante”, e così voi non potete più godervi il vostro piatto di Chili, perché è stato medicalizzato anche quello.

Medicalizzato e non solo terapeuticizzato. Sono due cose molto diverse.

Al Centro Heta, anche tramite, ma non solo, la mia figura, ci occupiamo attivamente proprio di fornire questo limite. Un limite interno al discorso dell’équipe.

Perché lo facciamo? Perché esiste un altro benessere, che non è quello legato al piacere o all’assenza di dolore. Chiunque abbia lavorato con aspiranti suicidi, sa di cosa si parla. Ricordare ad un potenziale suicida quanto sia bella la vita o quanto non “dovrebbe” uccidersi, non serve a nulla. Dargli dell’imbecille, magari, invece sì, se è fatto in certo modo.

Perché quest’altro concetto di benessere è una certa “consistenza del soggetto”, che non significa “non diviso”: si riferisce a “quanto c’è”, non a quanto sta bene. Il nostro orientamento utilizza, infatti, il termine mort du sujet, di Lacan, che non è la sofferenza, ma è relativo a quanto il soggetto consiste. 

Per presente, qui, si intende, per esempio, la capacità di operare scelte. Ad esempio, per intenderci su quale sia il punto a cui può arrivare la deriva terapeutica, spesso ci imbattiamo in nutrizionisti, con cui discutiamo spesso, che pretendono che le ragazze con disturbi alimentari, una volta ripreso a mangiare, non solo mangino, ma mangino anche “sano”. Una ragazza, magari, vuole andare dopo anni di restrizioni da McDonald, e il nutrizionista le dice: “No, assolutamente!”.

In una grande struttura psichiatrica, specializzata nel trattamento dei disturbi alimentari, durante un incontro una ragazza mi disse: “Io non ci credo che i medici mangiano tutto!”. E aveva ragione. Mangiavo con loro e, in effetti: no, il glutine no e i pomodori hanno troppo potassio. Sono in detox. Sono intollerante. Qualcuno era addirittura “ipersensibile”. Era tutto così. Se si fosse lavorato questo punto o utilizzato in qualche modo, sarebbe andato tutto molto meglio.

È molto difficile, per un significante forte come quello medicale o terapeutico, che è ormai parte di ciò che i francesi chiamano discours du maître, ovvero discorso del padrone, farsi da parte. Questo è un significante dominante: siete tutti convinti in fondo che l’uomo persegua il proprio benessere, tuttavia, che l’uomo non persegua il proprio benessere si può dare per assodato, tant’è che io fumo, ma per quale “compimento”? .

Per la sanità  a volte non è possibile lasciare un soggetto, perché rischia di lasciarlo senza nome. Alcuni soggetti arrivano da noi dopo vent’anni, poiché ci occupiamo spesso di psicosi molto gravi senza nessuna possibilità  di contenimento, in ambulatorio, per strada, in casa, senza spazi “adibiti a”. Come si può fare per sganciare queste persone?

Davanti alla macchina del caffè:

Che succede?

Anoressia nervosa.

E perché è nervosa?

L’anoressia, mica io.

E già cominciamo…

Un’altra questione fondamentale riguarda il cosiddetto maternage che potremmo tradurre momentaneamente con “accudienza”. Una certa solerzia di troppo?

Dal momento che il benessere non è tutto il bene, il punto non è se altre figure possano essere o no medicali (vedi la polemica sul counseling) ma è l’opposto: ovvero se il benessere perseguito dalla medicina, o il concetto stesso di terapia, esauriscano il benessere e la cura.

Quando abbiamo dato il via ai laboratori ad Ancona, che preferisco immaginare senza inventori, lo abbiamo fatto per creare uno spazio di parola in cui il soggetto non potesse essere in alcun modo subornato da un desiderio di un operatore, ma nemmeno, nei limiti del possibile, da altri discorsi. Nemmeno da quello medicale. È la sola esistenza del medico, a prescindere dalle sue capacità, ad esigere che la persona di fronte a lui sopravviva. E il soggetto potrebbe non mettere mai in parola il suo desiderio di uccidersi. O potrebbe non dire mai che si crede la reincarnazione di San Tommaso.

A noi è capitato con un ragazzo con cui avevamo addirittura imbastito delle disputatio medioevali, con tanto di respondens e opponens, quaestio e determinatio. In questo e solo in questo senso c’entra il teatro. Un medico non avrebbe potuto esimersi dall’occuparsi del fatto che quel ragazzo prendesse 30 euro al giorno di lassativi e, difatti, se ne occupava, ma c’era anche dell’altro.

Questo può sembrare un discorso che confligge con gli atelier che ho visto qui, di tessitura, di arte, di pesca, ma non è vero. Perché il punto è creare laboratori “neutri”, esattamente come cerchiamo di fare, ma preoccupandoci di essere pronti a qualunque istanza del soggetto. 

Ergo, di questo tipo di esperienze bisogna che ce ne siano o nessuna o tutte quelle possibili. Perché il soggetto purtroppo, o per fortuna, funziona come alcune particelle in fisica: nel momento in cui lo si guarda, lo si condiziona. Quindi, noi continuamente rifiutiamo o cacciamo tirocinanti di arteterapia, musicoterapia, danzaterapia, ippoterapia. Una ragazza che seguiamo ed è seguita anche da una struttura pubblica è andata a fare un’escursione in montagna? No, ha fatto una “montagnaterapia”. Sapendolo, un ragazzo che seguiamo, ascoltando un’altra persona che aveva avuto un punto di svolta incontrando l’amore, ha commentato: “Ah, la minchioterapia!”.

Questo è il rischio che corriamo.

Quindi occupiamoci di come farci fuori. Di come farci da parte, fare buco. Di creare spazi che possono essere tutto e niente. Pronti ad accogliere tutti i discorsi ma senza prescriverne nessuno. Senza setting ma con tutti i setting possibili. E con una posizione precisa, che è proprio quella di sapersi fare da parte. Che non significa non esserci.

E questo non è un punto contrastante con la cosiddetta medicina, altrimenti sarei disoccupato. Fortunatamente qualcuno, all’interno delle istituzioni, si preoccupa di crearsi un limite, per non rinchiuderli nel benessere. Dunque la cosiddetta guarigione è impossibile in alcuni casi? Sicuramente lo rimane se noi continuiamo a rafforzare questi significanti, senza badare a ciò che Theodor Reik chiamava “sorpresa”. Rimanere arretrati e in ascolto, a volte non basta, ci vuole proprio un posto in cui tutto questo non sia mai esistito.

Una signora che viene da noi, cosiddetta “cronica”, una volta mi ha detto che l’unico momento della sua vita in cui aveva smesso di mettere in atto tutti i suoi rituali era quando era finita, praticamente per un disguido, in Australia: “Dove nessuno mi conosce”. Senza lingua ma non senza linguaggio.

Un conto è la malattia, un conto è il dolore. Tutto qui.