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IL TEMPO DELLA CURA: La famiglia tra Crono e cronicità

Per la psicoanalisi la malattia non è solo sofferenza. Il sintomo, piuttosto, è “equivalente di vita”: per quanto sia ripetitivo è anche la porta del nuovo.

Il corpo sfugge, l’io frana e proprio in quell’alterità produce della vita.
Questa posizione radicale cozza con tutto il positivismo scientismo e con l’idea di parte ancora della medicina di una restituito ad integrum e apre alla possibilità  di una cura che mantenga la distinzione tra il “curare”, come intervento sulla malattia e “l’avere cura”, nel senso di occuparsi di qualcuno al di là dell’intervenire sul sintomo che presenta.

I familiari sono molto esposti, se cosi possiamo dire, a una serie di dinamiche che prendono le mosse da elementi specifici:

  1. l’evento sintomatico, e la condizione patologica che ne consegue, irrompono sempre come un reale inaspettato. Il primo tempo è il tempo del TRAUMA. La patologia viene vissuta come un fuori senso inassimilabile per la famiglia. Questo è vero anche quando il problema è presente fin dalla nascita o quando si produce in età avanzata in conseguenza di una patologia cronica.  È tanto più vero anche quando, per esempio, parliamo di problematiche che non hanno un’origine strettamente organica. O di sintomatologie che vedono il soggetto, almeno in una prima fase, a sostegno del sintomo, come per esempio tutto il campo delle patologie alimentari. A questo riguardo un genitore ci diceva: “Mi è caduta una meteora addosso!”.
  2. La malattia di un componente della famiglia, e per certi versi ancora di più se si tratta di un figlio, altera i rapporti e gli equilibri familiari. C’è dunque una rottura dell’ordine su cui si era fondato fino a quel momento quel sistema familiare e che richiederà una profonda rivisitazione. Spesso, inoltre, i sintomi arrivano come una LETTURA DEL DISAGIO familiare o di coppia. Mi riferisco ovviamente in particolare ai sintomi psichici. Un esempio lo abbiamo nelle manifestazioni sintomatiche più disparate dei bambini: tic, insonnia, inappetenze, che sono chiaramente un modo di segnalare un problema familiare più che individuale. Scrive Lacan nella Nota sul bambino: Il sintomo del bambino è nella posizione di poter rispondere a quanto c’è di sintomatico nella struttura familiare.
  3. Infine un altro punto costantemente presente è la condizione di IMPOTENZA in cui un familiare è riversato nel momento in cui un sintomo fa capolino. E quanto di più consueto ascoltiamo nei racconti dei genitori di fronte a quello che devono affrontare con i figli. Ma è una condizione onnipresente ogni volta che il reale della vita ci costringe a fare i conti con l’incomprensibile e l’incommensurabile. La sensazione di impotenza va a minare il nostro stesso senso di integrità  personale con reazioni o di negazione e fuga o di colpevolizzazione e delusione. In una situazione di assistenza a un malato terminale un operatore scrive: Le stavo vicina tanto quanto i parenti si allontanavano; tanta era la paura di perderla che, paradossalmente avevano anticipato il distacco magari sperando che sarebbe stato meno doloroso.

Che indicazioni possiamo prendere da questi spunti?

Innanzitutto consideriamo qual è il posto di un familiare rispetto alla malattia di un suo congiunto. Il familiare va trattato come SOGGETTO. Questo significa che, se da una parte abbiamo il malato di cui si tratta di prendersi cura, dall’altra il familiare è sempre coinvolto, ha un suo vissuto particolare rispetto alla malattia, pur non essendone lui il portatore. E quando si mette nella condizione di curante lo fa a costo di grande sacrificio personale.

In fondo la posizione di caregiver, quando richiesta a un familiare, se da una parte semplifica il problema da un punto di vista economico e sociale, dall’altra amplifica a dismisura le problematiche interne alle relazioni familiari nonché fissa il soggetto a un ruolo, non proprio, che può diventare del tutto sintomatico per quella persona.

Penso in particolare a una donna che, per accudire il proprio padre, ha praticamente rinunciato alla sua vita personale, ma questo “sacrificio”, da obbligo o necessità  del momento, è diventato un rifugio per questa persona, che si è dimenticata di se stessa annullandosi dietro il dovere di accudimento. In questa posizione da una parte così scomoda, lei si era accomodata benissimo pur, diciamo, non rendendosi conto delle conseguenze che pagava.

O a un’altra donna che si è presa tutto il carico dell’assistenza della propria madre (nonostante la stessa vivesse con un figlio e un nipote), rimettendosi nuovamente nel posto del padre mancato quando lei aveva 20 anni e in seguito alla perdita del quale aveva rinunciato alla propria carriera universitaria per lavorare e sostenere la famiglia anche se nessuno glielo aveva chiesto.

Un ulteriore cortocircuito dei rapporti familiari lo abbiamo quando, volenti o nolenti, si finisce per focalizzarsi sulla cura del BISOGNO. L’equivoco di fondo è confondere la cura con la soddisfazione del bisogno. Infatti non si tratta di rispondere nell’immediato. La “cura” intesa in questo senso, diventa il problema.

Paradossalmente, il modo migliore di avere cura dell’altro è quello di non sopperire ai suoi bisogni. E tanto più consideriamo una malattia “cronica” tanto più rischiamo di focalizzarci sul dato fisico, finendo a volte anche per alimentare la situazione.

La famiglia, dal canto suo, può oscillare tra essere fattore di cronicità  e/o di cura. Lo vediamo benissimo nelle situazioni di malattie egosintoniche (come per esempio l’anoressia) in cui capita che da un lato la famiglia somministri le cure e dall’altro, inconsciamente, vi si opponga: la famiglia funge da spinta, ma anche da fattore immobilizzante.

La cura può mantenersi nella soddisfazione del bisogno e della ripetizione o può aprirsi al nuovo differendo la ripetizione. Non dobbiamo infatti rassegnarci alla cronicità del tempo che passa sempre uguale e segna gli eventi come inevitabili, ma può esserci del nuovo e dipende da come i significanti vengono abitati.

Bisogna allora domandarsi: che cosa il soggetto ne fa? Ed è da questa prospettiva che le cose possono cambiare. Anche nel dolore, nell’ingravescenza, il punto non è farsi travolgere dagli eventi, dalle necessità, dalle prospettive nefaste della malattia.

Insieme a un tempo cronologico che scorre e devasta, esiste un tempo che segna e rinnova, un tempo sempre presente, un tempo in cui tutto è in gioco. Il compito dei familiari è quello di tenere conto di questo battito ed essere all’appuntamento. Per sostenere il soggetto nella sua modalità  particolare di stare al mondo, su cui deve poter sempre avere la possibilità  di scelta e l’ultima parola.