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COMUNICARE L’INDICIBILE – L’atto del silenzio

Non tutto passa attraverso la parola e c’è bisogno di dare un posto a questo indicibile, a questa verità  impossibile a dirsi, c’è bisogno di dargli un posto affinché si produca qualcosa di diverso da un sintomo, affinché non rimanga incistata nel corpo o nel pensiero.

Come comunicare ciò che non può dirsi? Shhhh. Silenzio!

Il silenzio non è mai da intendersi come un’assenza. E un gesto, un atto, è qualcosa che va al di là  della parola: “Il suo silenzio valeva più di mille parole”.

Nella mia infanzia sono stata una persona molto silenziosa, al limite del mutacico. Forse perché anche per me, già allora, c’era qualcosa che non poteva dirsi semplicemente, che non passava attraverso le parole dette, ma il mio silenzio era molto carico. Era un silenzio molto rumoroso, un silenzio assordante, almeno per me. Peccato che nessuno, a quel tempo, ne potesse fare qualcosa. E neanche io potevo farne nulla, a quelle condizioni.

Ci vuole sempre un altro che raccolga la parola detta, non detta o indicibile. La raccolga e le faccia spazio affinché possa riformularsi, trovare la sua articolazione.

Questo in fondo è quello che facciamo quando, da una posizione di ascolto, accogliamo la parola del soggetto. Le facciamo posto, l’accogliamo, senza aspettarci altro se non che si produca, che arrivi, si mostri.

Il silenzio dell’analista, che è il posto etico da cui si opera e non un dato meramente tecnico, tanto che va calibrato sul singolo paziente e non è un assunto aprioristico. Nel momento stesso in cui permette alla parola di articolarsi, apre all’indicibile, all’impossibile a dirsi, a quella verità  del soggetto che si può dire sempre solo a metà .

La parola gira attorno a un vuoto che non può essere colmato neanche mettendo insieme mille parole.

Mentre sul lato del sapere e della conoscenza possiamo arrivare a padroneggiare i concetti e formulare termini sempre più precisi e raffinati, quando si tratta di noi, quando dobbiamo parlare dei nostri sentimenti, di quello che ci attraversa e che proviamo le parole si fanno sempre più scarne, difficili da trovare, mai giuste.

Più si parla e soprattutto più si parla di sé, del proprio intimo, più questa esperienza di mancanza ci è evidente. La cura non sta nel tappare quel buco, ma nel farne il giro, far sé che emerga al di là del vuoto e della sofferenza.